SPI-CGIL Lega 12 - Nichelino Vinovo Candiolo

      

 

Liberetà - L'inchiesta di Giorgio Nardinocchi

Ambulatori vicino casa, assistenza domiciliare, vigilanza sanitaria, innovazione: sono parole che sentiremo sempre più spesso. Ne parliamo con Monica Bettoni, medico oggi in pensione, partita volontaria con la protezione civile durante i giorni dell’emergenza Covid e insignita del titolo di cavaliere della Repubblica dal presidente Sergio Mattarella.

LA SANITÀ CHE VOGLIAMO

Monica BettoniLe nuove frontiere della salute. Un virus sconosciuto e aggressivo stava dando scacco al nostro servizio sanitario. Nel momento peggiore dell’emergenza Covid gli ospedali stavano per andare in tilt, i servizi territoriali non erano preparati. Nessuno si era accorto che il virus era entrato nelle nostre case e stava infettando i pronto soccorso. Per questo motivo sistemi sanitari incentrati sugli ospedali, tipo quello della Lombardia, non hanno retto alla pandemia. Mentre altri più territoriali – Veneto, Toscana ed Emilia Romagna – hanno funzionato un po’ meglio.

Tutto deve cambiare. Il corona virus ha confermato che noi italiani riusciamo a dare il meglio nelle emergenze, ma arranchiamo nella routine. Così è accaduto alla nostra sanità: eroici - è stato detto - i medici e gli infermieri nel pieno di una crisi mai vista; lento, burocratico e inefficace nell'ordinarietà il nostro servizio sanitario: con le sue infinite liste d’attesa per visite specialistiche e ricoveri; medici di famiglia sottoutilizzati e poco motivati; mancanza di ambulatori in periferia, di reti di servizi a domicilio e di un’assistenza agli anziani minimamente dignitosa. Ecco perché, usciti dall’emergenza, dovremmo pensare al futuro. Per non commettere gli stessi errori fatti nella gestione della crisi, come ha esortato il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, al requiem per i morti di Bergamo. È il momento giusto per guardare più in là del nostro naso, perché nessuno oggi, al contrario di ieri, si azzarda a distogliere risorse dalla spina dorsale del nostro stato sociale. Da qui parte questo nostro viaggio nella sanità che verrà.

Una guida d'eccezione. In questo viaggio ci ha accompagnato una guida d'eccezione: Monica Bettoni, medico cardiologo e internista, oggi in pensione, militante di sinistra, un’esperienza importante nelle istituzioni da senatrice, sottosegretario alla Sanità, direttore generale dell'Istituto superiore di sanità. Nei giorni in cui gli ospedali erano senza medici e infermieri, si è offerta di partire volontaria della protezione civile. La Regione Emilia Romagna l'ha destinata all’ospedale di Fidenza (trecento posti letto, tutti malati Covid) dove ha trascorso diciannove giorni in corsia, dal 2 al 21 aprile. «Mai e poi mai - ha detto a LiberEtà - avrei pensato di tornare in ospedale a 69 anni per combattere l’assedio pandemico che ha causato trentacinquemila morti e ha lasciato migliaia di persone con danni collaterali permanenti non soltanto ai polmoni ma a tutti gli organi, compreso il cervello».

Il telegramma di Mattarella. A fine aprile, appena rientrata nella sua casa di Arezzo, Monica Bettoni ha trovato il telegramma del presidente Mattarella che le conferiva il titolo di cavaliere della Repubblica. «In vita mia non ho mai lavorato in quel modo. A fine turno - racconta - andavamo a toglierci la bardatura: mascherina, visiera, occhiali di protezione, guanti, tute di plastica. E finalmente potevamo guardarci in faccia, riconoscerci. Giovani appena usciti dall’università e volontari in pensione come me: tutti portavamo sul viso gli stessi segni della stanchezza, della fatica e della paura del virus, non per noi stessi, ma di portarlo a casa. Con me c’erano molte giovani donne con dei figli dai quali dovevano tornare a fine turno››.

L'esperienza di Fidenza. Anche dal punto di vista clinico è stata un’esperienza nuova. Non avevamo farmaci a disposizione. Sapevamo solo che quando il malato non respirava più dovevamo dargli l’ossigeno o mandarlo in terapia intensiva. Quei casi clinici nessuno li aveva mai affrontati prima››. Oggi c’è chi scrive sui giornali e si mette a fare il professorino in Tv dando le pagelle. «Sono fastidiosi certi commenti fatti dal salotto di casa senza immaginare cos’è stato il corona virus, e senza considerare il pericolo che può ancora rappresentare nei prossimi mesi invernali».

E ora il futuro. Parte da questo racconto di vita fuori dal comune il nostro approfondimento sul servizio sanitario nazionale del dopo Covid. Come immaginare, oltre la tragica esperienza della pandemia, la sanità di domani? Il futuro, dice Monica Bettoni, non dobbiamo andare a cercarlo su Marte. Sappiamo cosa c’è da fare. «L’esperienza di questi mesi ha dimostrato che l’ospedale deve essere il presidio ultimo a difesa della salute, quello che affronta le situazioni più gravi. Ma prima dell’ospedale deve esserci una serie di filtri e presidi sul territorio, dal medico di famiglia ai piccoli ambulatori, dai dipartimenti di prevenzione delle Asl ai distretti sociosanitari».

La medicina di iniziativa. Nella relazione che il ministro Roberto Speranza ha presentato al Parlamento il 10 giugno si parla di rafforzare la sanità di territorio. Ma come? Possiamo fare qualche esempio? Monica Bettoni la chiama “medicina d’iniziativa”. È quella che va a cercare i malati. Nei mesi scorsi abbiamo visto in azione le unità di assistenza (Usca) che vanno casa per casa a trovare i pazienti Covid in quarantena. Sono state istituite per arginare l’epidemia. Perché se i malati vanno in giro infettano altre persone. Un' altra novità di questi mesi è quella delle squadre che ricostruiscono le linee di contagio di un focolaio: i cosiddetti tracciatori. Sono come detective che devono scoprire le persone infette, scovare chi ha avuto contatti con loro, isolare il focolaio e controllare la quarantena. «Tutto questo è compito dei dipartimenti di prevenzione delle Asl. - spiega Bettoni - Devono essere rafforzati. La battaglia contro le epidemie si combatte su questo fronte. L'ospedale deve essere l'ultimo baluardo. Speriamo che in Lombardia abbiano capito la lezione».

Non solo Covid. L'attenzione alla medicina di territorio non vale solo nella lotta al corona virus. Prendiamo ad esempio la cura dei pazienti cronici e degli anziani con più patologie. «Bisogna rafforzare la risposta sanitaria a casa. Soltanto così si possono assistere degnamente le persone fragili o disabili. Rsa e ospedali devono rappresentare 1”ultima possibilità d'intervento. E comunque le strutture di accoglienza devono essere piccole e inserite nel contesto urbano».

La Sanità che verrà deve compiere un salto di qualità e occupare ambiti oggi non coperti dal servizio sociosanitario, perché la società è cambiata. Ci sono ad esempio molti più anziani. Si potrebbe partire da qui per ridisegnare la rete dei servizi pensando a chi ha perso l’autosufficienza. C’è una grande riforma da fare, come denunciano da tanti anni i sindacati dei pensionati, purtroppo inascoltati. «Livia Turco ha ragione quando dice che non si può pensare che l’unica risposta alla cronicità e alla non autosufficienza sia il ricovero in Rsa. Bisogna rafforzare la risposta a casa, aiutare le famiglie, le persone che si prendono cura: solo così possiamo tenere la persona fragile nella sua casa. Le risposte sanitarie e assistenziali devono essere integrabili. Sanità e assistenza non sono due strade separate». Insomma, come diciamo da tempo, servirebbe una legge nazionale dello stesso spessore di quella che riformò la sanità nel 1978.

Investire nell'innovazione. C'è poi il capitolo tecnologia. «Non penso che le macchine possano sostituire il rapporto umano, - dice Bettoni - però per seguire i pazienti a casa la telemedicina può essere di grande aiuto. Possiamo dispiegare un insieme di mezzi tecnologici che consentono rapidità,minore dispendio di energie, maggiore capacità di sorvegliare e assistere i pazienti. Inoltre, servono innovazioni avanzate in ospedale e nei poliambulatori . L’alta tecnologia dei macchinari potrebbe accorciare le liste d’attesa, abbreviare i ricoveri, fare diagnosi più precise».

I medici di famiglia. Chi si ricorda dei medici condotti sa di cosa parliamo. Non di quei poveri professionisti messi ai margini da riforme come quella attuata da Roberto Maroni in Lombardia. I medici di famiglia dovrebbero essere le sentinelle della salute pubblica, il perno delle cure primarie, coloro che fanno la prima diagnosi. Figure così sono ancora indispensabili. Certo, pagarli soltanto per scrivere le ricette è uno spreco. Ma se fossero integrati nella medicina di territorio sarebbero utilissimi. «Prima di arrivare a soluzioni estreme, come quella di farli diventare tutti dipendenti pubblici, cosa che loro non vogliono, ce ne passa. Ma la convenzione - sostiene Bettoni - può essere modificata. Non è pensabile che ci sia chi si rifiuta di visitare i pazienti a domicilio o che si fa pagare. In Toscana, e non solo, ci sono le case della salute. Ai medici di medicina generale è stato proposto di prestare servizio presso queste strutture, in modo tale che il cittadino a qualunque ora del giorno possa trovarne uno, ma molti non accettano. Se il medico di famiglia non vuole essere un semplice redattore di ricette deve chiedere maggiore responsabilità. Una volta in ambulatorio i medici condotti eseguivano anche l’elettrocardiogramma. Oggi, con le attuali tecnologie potrebbero fare diversi esami strumentali ed evitare al paziente le liste d”attesa».

Più sanità meno disuguaglianze. La sanità dovrà essere ridisegnata partendo dal gradino più basso e risalendo verso la medicina attiva sul territorio, l’integrazione tra sanità e assistenza, la rete dei servizi domiciliari, le cure delle cronicità e di lungodegenza per i non autosufficienti, ospedali più piccoli, più flessibili e più tecnologici inseriti nel contesto urbano e territoriale. Dovremmo pensare di più agli ambulatori nelle aree delle periferie urbane, nelle zone a intenso lavoro stagionale, come fa ad esempio Emergency con gli ambulatori mobili pensati per i lavoratori extracomunitari, ma utilizzati anche dagli italiani poveri. Perché è così che si combattono le disuguaglianze.