«Quando a scuola, da piccoli, facevamo i temi su "cosa farai da grande?", rispondevo sicuro: il magistrato». Per quarantatré anni è stato proprio questo il lavoro che Pietro Grasso ha svolto con il sogno di mettere la mafia all'angolo. Oggi, a LiberEtà confessa le sue preoccupazioni sulle misure ancora troppo poco stringenti per abbattere un sistema criminale e sull'idea di giustizia prospettata dal governo.
La prima
indagine di Pietro Grasso su cosa nostra risale al 1980, quando diventa
titolare dell'inchiesta sull'omicidio di Piersanti Mattarella. Cinque anni dopo è giudice a latere nel maxiprocesso
alla mafia siciliana istruito dai giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Tra il 1992 e il 1993, sfugge
casualmente a un attentato: glielo confessa Gioacchino La Barbera, uno dei grandi pentiti di cosa nostra.
Dopo le stragi di Capaci e via D'Amelio, Totò Riina voleva uccidere un altro magistrato e aveva scelto lui per
sferrare «un colpetto per ravvivare la trattativa» Stato-mafia. Nel 1999, diventa procuratore della Repubblica
di Palermo, sei anni più tardi procuratore nazionale antimafia. Nel 2006 è tra coloro che contribuiscono alla
cattura del boss Bernardo Provenzano. Nel 2013 viene eletto presidente del Senato.
«La mafia -diceva Falcone- è un fenomeno umano e come tutti i fenomeni umani ha un principio, una sua evoluzione e avrà quindi anche una fine». A che punto del percorso siamo?
«Siamo di fronte alla terza metamorfosi della mafia: da rurale a urbana, e ora degli affari. Grazie all'economia sommersa e a complicità politico-imprenditoriali, si mimetizza nel mercato legale, evitando di essere relegata alla sola dimensione criminale. La sua forza deriva dall'enorme liquidità e dall'uso (anche solo come minaccia) della violenza per consolidare relazioni con il mondo economico. L'imprenditore, stretto tra paura e convenienza, spesso cede all'utilitarismo, mentre il sistema nel suo complesso è permeato dall'evasione fiscale, dalla corruzione e dall'uso delle relazioni politiche per ottenere privilegi. Il denaro delle mafie invade settori come commercio, trasporti, sanità, ristorazione, appalti pubblici e gestione dei rifiuti, alterando le regole della concorrenza, imponendo opere inutili e massimizzando i profitti a scapito della qualità. Il pericolo maggiore è l'illusione che, non facendo più ricorso a bombe e armi, la mafia sia sconfitta. La sua strategia punta oggi alla discrezione, privilegiando i rapporti con economia, politica e istituzioni. Riforme recenti - abrogazione dell'abuso d'ufficio, modifica del traffico di influenze, riduzione dei tempi delle intercettazioni - rischiano di favorire l'impunità di amministratori, politici, colletti bianchi e rafforzare il sistema clientelare di collusioni, favoritismi e corruzione, e quindi la mafia».
Il giro d'affari della mafia è stimato in 220 miliardi di euro l'anno (1'11 per cento del Pil). Dal 1992 al 2024 sono stati 388 i comuni commissariati per infiltrazioni mafiose. Come si contrasta questa marea?
«Le moderne mafie si rafforzano attraverso immense ricchezze e relazioni con il potere, cercando di piegare le istituzioni e influenzare la spesa pubblica, compreso il Pnrr. La loro espansione si basa sul traffico di droga e armi, sulla globalizzazione finanziaria, sulla scarsa trasparenza dei mercati e sulle nuove tecnologie. Il riciclaggio di capitali è sempre più sofisticato, e contrastarlo è la sfida del nuovo millennio».
Quali strumenti abbiamo?
«Affrontare la mafia richiede indagini approfondite, sinergia istituzionale e una strategia mirata alla confisca
e al riutilizzo sociale dei beni mafiosi. Ma serve anche una riforma economica e sociale: promuovere la cultura
della legalità, migliorare la pubblica amministrazione, sostenere imprenditori e commercianti contro racket e
usura, incentivare investimenti leciti e proteggere gli amministratori minacciati. Dobbiamo contrastare il metodo
mafioso con un modello basato su cooperazione, equità, tutela dei beni comuni e giustizia sociale. Spezzare il
legame tra la mafia e la cosiddetta "zona grigia" di professionisti, politici e burocrati è essenziale».
Pensando alle ricadute che potrà avere sui cittadini, qual è il suo giudizio sulla riforma della giustizia che il governo vuole approvare?
«Le riforme della giustizia dovrebbero puntare su celerità, risorse adeguate, riduzione degli uffici giudiziari, digitalizzazione efficace ed eliminazione dei formalismi che favoriscono prescrizioni e scarcerazioni. Il disegno del governo, invece, dopo l'abrogazione dell'abuso d'ufficio, sembra voler indebolire l'azione giudiziaria e riportare la magistratura a un ruolo subordinato al potere. La separazione delle carriere appare costosa, perché sottrae risorse per creare un doppione del Csm; ipocrita, perché il passaggio tra pubblico ministero, e giudice è già ridotto al minimo; inutile, perché il pm è sotto il controllo del giudice e non esiste alcuna "repubblica dei procuratori". È anche dannosa, perché rischia di trasformare il pubblico ministero in un organo esclusivamente di parte, che punta alla condanna a ogni osto. Inoltre, lo rende più permeabile all'influenza del potere esecutivo, come avviene in altri paesi, dove il governo controlla l'azione penale. Il rischio è che qualsiasi maggioranza possa ridurne l'indipendenza con una semplice legge ordinaria, tradendo lo spirito della Costituzione, ispirata al principio della separazione dei poteri».
C'è anche chi ha proposto di chiamarla riforma Falcone. Lei, che con Falcone ha lavorato per anni, pensa che le cose stiano proprio così?
«Giovanni Falcone, dopo la riforma del processo penale, voleva dare slancio all'azione del pm, aumentarne la professionalità senza intaccarne l'indi-pendenza. Metteva in risalto la specificità delle nuove funzioni, già del giudice istruttore, e la conseguente differenziazione delle carriere. Per lui, il vero nodo era la specializzazione del pm nella direzione delle indagini e nell'acquisizione di prove che potessero reggere al contraddittorio. Riteneva che il potere di incidere sulla libertà dei suoi simili fosse stato concesso al pubblico ministero in funzione di un'alta probabilità di successo dell'accusa. Usare il nome di Falcone per giustificare riforme punitive verso la magistratura è un abuso della sua memoria».
Lei incontra spesso i giovani nelle scuole e ha dato vita alla fondazione Scintille di futuro. Perché ha scelto questo nome?
Da sempre incontro studenti e cittadini per trasmettere la lezione di Falcone, Borsellino e delle vittime di mafia. Oggi, con la fondazione Scintille di futuro Ets, dedico la mia "terza vita" a custodire la memoria, promuovere legalità e confrontarmi con i giovani sul futuro del paese. Le loro domande e il loro entusiasmo mi danno forza. Il nome della fondazione nasce da un accendino legato a Falcone: simbolo di un'amicizia spezzata, ma anche di scintille pronte ad accendere nuove fiaccole di giustizia. Invito tutti a seguire le nostre attività sul sito www.scintil-ledifuturo.it e attraverso la collana di volumi che pubblichiamo, che si chiama Scintille».