TRA ACCELERAZIONI E MARCE INDIETRO, QUALI SCENARI SI APRONO NEGLI STATI UNITI E NEL MONDO CON I DAZI DI DONALD TRUMP? L'ECONOMIA AMERICANA NE TRARRÀ DAVVERO GIOVAMENTO, COME PREDICA LA CASA BIANCA, OPPURE NON SONO ALTRO CHE UNA FERITA AUTOINFLITTA? COSA DOVREBBE ASPETTARSI L'EUROPA?
I dazi che Donald Trump ha imposto sono una ferita autoinflitta al suo paese. Non serviranno a riportare indietro l'industria e renderanno alla lunga il debito statunitense insostenibile. Politica economica e torsione autoritaria sono intrecciate». A dirlo è Manuela Moschella, ordinaria di scienza politica presso l'università di Bologna e docente associata alla Johns Hopkins University.
I dazi americani: arma negoziale o segno che il mondo va verso il protezionismo?
«Visti da Trump sono soprattutto un'arma negoziale, nonostante tutti gli errori della sua amministrazione: annunci, fughe
in avanti, clamorose ritirate. Ma è vero che si iscrivono in una tendenza più ampia che ha radici anche nell'amministrazione
Biden. L'Inflation reduction act, che di lotta all'inflazione aveva ben poco, ma che è la più grande legislazione americana
mai vista sull'ambiente, aveva una connotazione protezionistica, perché i sussidi per lo sviluppo di tecnologia verde e le
clausole di quel provvedimento segnavano una chiusura rispetto agli operatori stranieri. Sperimentiamo spinte di questo
tipo mai viste nei settant'anni precedenti, ma la questione non va affrontata in termini deterministici: molto dipenderà
da come cambieranno gli equilibri interni agli Stati Uniti e la reazione degli altri paesi».
Quanto pesa nelle scelte di Trump l'enorme debito pubblico e privato degli Stati Uniti verso l'estero?
«Almeno sulla carta è il tema che Trump ama sollevare. È vero che la perdita di competitività globale della manifattura
statunitense si è tradotta in una crescita del deficit commerciale. Questa perdita è dovuta anche al ruolo del dollaro come
valuta di riserva globale. Un dollaro forte ha reso meno competitiva l'industria americana, ma è anche vero che gli Stati Uniti
hanno avuto benefici enormi, principalmente con la possibilità di indebitarsi a tassi molto più bassi rispetto al resto del mondo.
Il paradosso è che ora Trump stia cercando di smantellare il predominio del dollaro per dare sostegno all'industria. Si tratta
di un gioco molto pericoloso, perché il deprezzamento del dollaro sui mercati e un rialzo dei tassi sui buoni del tesoro americani,
rendono meno sostenibile il debito».
Il presidente Usa, Donald Trump, durante la
conferenza stampa di presentazione della lista delle tariffe dei dazi che prevede di applicare ai vari paesi
Questa politica si iscrive in una tendenza al declino della potenza americana?
«Fino all'annuncio dei dazi, il dibattito sul declino degli Stati Uniti è stato sempre vivace ma, nonostante l'ascesa della Cina,
gli Usa avevano mantenuto il predominio economico e tecnologico. Insomma, una morte preannunciata e mai verificata. Quello che
cambia oggi è la ferita autoinflitta dal presidente Trump al suo paese. Non sottovaluterei le dinamiche interne. Proprio perché
autoinflitta non è detto che gli Stati Uniti non cambino traiettoria, di fronte a una rivolta della propria opinione pubblica o
a un'opposizione dell'industria e della finanza domestiche. Qualche segnale comincia ad affacciarsi».
Secondo numerosi esperti, l'idea di riportare settori industriali in patria attraverso una politica protezionista non funziona.
Ha senso pensare di riportare settori industriali in patria attraverso il protezionismo?
«È opinione diffusa tra gli esperti che una politica di questo tipo non funziona. Con il Covid ci siamo resi conto che le catene
globali del valore erano troppo lunghe e quindi considero positivo non solo per gli Stati Uniti, ma anche per gli altri Stati,
ragionare su come attrezzarsi per le grandi sfide dell'ambiente, della sicurezza, della produzione industriale. Il problema è che
nessuno ha capito quale sia la strategia del presidente americano per riportare indietro l'industria. La logica con la quale ha
imposto i dazi non era selettiva, basata sulle reali potenzialità della manifattura americana, ma orizzontale, con lo scopo apparente
di fare pressione su chiunque avesse un avanzo commerciale verso gli Stati Uniti. Senza contare che rinazionalizzare l'industria
presuppone competenze e risorse umane che non si inventano in un tempo breve».
Esiste un parallelismo tra politica dei dazi e involuzione della democrazia americana?
«Sì, credo sia un atteggiamento di fondo dell'amministrazione degli Stati Uniti: chi tende a rifiutare il conflitto a livello
domestico, tende a proiettare all'esterno l'immagine di una nazione che non tollera la competizione sui mercati e la contendibilità
della propria egemonia. Da docente universitaria, vivo con particolare apprensione la torsione antidemocratica per ciò che accade
nelle università statunitensi. Sotto attacco sono la cultura ma anche valori come l'uguaglianza e la diversità, e i diritti:
pensiamo ad esempio a quello che accade agli studenti stranieri».
«Le destre europee dovranno presto fare i conti con le proprie convinzioni e scegliere tra la sovranità del proprio paese e il sostegno a Donald Trump».
Le politiche di Trump favoriranno l'avanzata delle destre?
«Le destre europee sono in grande affanno proprio per le politiche di Trump. In Germania abbiamo visto la spaccatura all'interno di Alternative für Deutschland tra chi critica e chi difende il presidente americano. Prima o poi dovranno scegliere tra sovranità del proprio paese, magari difendendo la propria industria, o il sostegno e la vicinanza ideologica a Trump».