Da due anni, ormai, la Striscia di Gaza sta vivendo una crisi umanitaria. Il territorio non è altro che un cumulo di macerie. Ed è sempre più difficile trovare le parole per descrivere il terrore e le condizioni disperate in cui i suoi abitanti sono costretti a vivere.
La Striscia
di Gaza si chiama così perché è letteralmente un lembo, una lingua di terra larga pochissimi chilometri e lunga poco di più.
A est il territorio israeliano, a Ovest il Mediterraneo. Arrivando a Gaza, la prima cosa che colpisce è qualcosa che si potrebbe
notare anche osservandola dall'esterno. Senza veri confini naturali, ciò che marca il passaggio dai campi coltivati nel territorio
israeliano alla distesa di rovine della parte palestinese, è una banalissima rete di acciaio e filo spinato. Una rete lungo la
quale si muovono mezzi militari, sorvegliata da droni e telecamere, costeggiata da strade e trincee, ma in fin dei conti nient'altro
che una rete. E come per ogni rete, come in ogni prigione, è attraverso i cancelli che si transita da una parte all'altra.
Abisso di sofferenza. E come sappiamo tutti, come abbiamo potuto vedere attraverso gli schermi dei telefonini o nelle immagini strazianti, seppur largamente censurate, delle reti televisive di tutto il mondo, al di là di quei cancelli, i pochissimi chilometri quadrati della Striscia di Gaza da due anni sono un abisso di sofferenza, distruzione e disumanità. La condizione degli abitanti è talmente disperata che risulta davvero difficile trovare le parole per descriverla. Tentare di allontanare lo sguardo del mondo da ciò che sta accadendo al di là di quella rete è uno dei motivi che ha spinto le autorità israeliane a vietare completamente l'accesso ai giornalisti stranieri e che ha reso - in modo ancora più cinico e brutale - igiornalisti di Gaza obiettivi privilegiati delle bombe di Tsahal. Un terribile esempio è il bombardamento al caffè al-Baqa, che il 30 giugno ha fatto almeno ventiquattro morti tra residenti e giornalisti che frequentavano il luogo per poter accedere a internet.
Crisi senza precedenti. La Striscia è da mesi sull'orlo di una crisi umanitaria senza precedenti. Il cibo scarseggia e le persone sono costrette quotidianamente a marciare per chilometri per poter ricevere un misero pacco di aiuti da un'organizzazione creata dalle autorità israeliane con il beneplacito e l'appoggio degli Stati Uniti e che, nonostante il nome, non ha nulla di umanitario: in poche settimane molte centinaia di palestinesi sono stati uccisi e migliaia feriti dall'esercito israeliano nelle vicinanze dei siti di distribuzione. Il carburante, necessario per le poche vetture rimaste e per le stazioni di desalinizzazione dell'acqua, sta per terminare. Quasi tutti gli ospedali sono stati resi inservibili dalle bombe israeliane e, i pochi rimasti, operano in condizioni disumane senza poter più ricorrere alle medicine, ai macchinari e alle procedure necessarie per curare i feriti. Le scuole e le università non esistono più.
Cosa resta nella memoria. Ciò che resterà nei miei occhi e nella mia memoria sono i palazzi polverizzati dai bombardamenti, l'odore acre delle fogne a cielo aperto e della plastica bruciata per ricavarne carburante, i bancali spezzati ammucchiati a bordo strada da utilizzare come legna da ardere. E le migliaia di tende sbrindellate dalla pioggia e arse dal sole, i carretti trainati da asini e cavalli macilenti che trasportano persone che provano a vivere con dignità in un contesto di brutale disumanizzazione. E forse più di tutto il rumore, incessante, martellante dei droni che sorvegliano dall'alto una popolazione in trappola, che il mondo non vuole salvare da un destino di morte. Al di là di una rete di acciaio e filo spinato.